Viaggio nella Complessità


Giorgio Parisi incontra Mauro Ceruti
Giorgio Parisi e Mauro Ceruti sono due tra le persone che più in Italia hanno lavorato e lavorano sul tema della complessità. Un argomento di cui si è cominciato a parlare quasi quarant’anni fa, un tema chiave per guardare al mondo di oggi, capire l’evoluzione del sapere, individuare le necessità, soprattutto quelle dei giovani, affrontare i problemi. Fisico il primo, filosofo il secondo, Parisi e Ceruti in tanti anni di lavoro parallelo sulla complessità non avevano mai avuto l’occasione di parlarne faccia a faccia: hanno accettato di farlo per iS, in collegamento via Skype tra Roma e Bergamo.

PARISI. La definizione di complessità è sempre stata problematica. Mi ricordo che 20 o 25 anni fa, quando se ne cominciava a parlare nell’ambito della fisica, uno dei relatori a un incontro aveva detto di aver trovato in letteratura 65 definizioni di complessità, molto diverse tra loro. Quasi tutte facevano una forte distinzione tra complicato e complesso. Mi spiego: un jet è complicato, ma non è considerato complesso, perché ogni parte ha un suo scopo e sappiamo che cosa succede se, per esempio, tagliamo un filo. Un sistema complesso, invece, non è stato costruito a tavolino, ha certamente una sua funzione, ma spesso è il frutto di un’evoluzione e non abbiamo idea di come modificarlo per farlo funzionare in una maniera diversa.

“Complessità significa passare da un mondo di previsioni certe a uno di previsioni basate sulla probabilità.” Giorgio Parisi
CERUTI. Hai formulato in modo semplice il problema della complessità… Perché la complessità è un problema, che ho appreso a formulare anche dai tuoi colleghi fisici e matematici. Anch’essi hanno scoperto, col tempo, che molti dei loro oggetti erano davvero complessi e, invece, molti problemi che credevano complessi erano semplicemente complicati. E dunque hanno dovuto per forza approfondire la questione. Ma il punto essenziale, per loro come per me, è che il modello di conoscenza e razionalità elaborato in particolare dalla fisica del diciottesimo e diciannovesimo secolo a un certo punto non funzionava più. Non funzionava più il criterio per definire la verità o anche l’affidabilità di una teoria scientifica. E questo criterio era la sostanziale sinonimia fra determinismo, previsione e prevedibilità. L’imprevedibilità, o il fatto che una teoria non permettesse di prevedere lo stato futuro di un sistema, faceva pensare che ci fosse un difetto intrinseco alla teoria, che quindi avrebbe dovuto essere cambiata in senso maggiormente predittivo. Oppure che ci fosse un difetto della nostra capacità di osservazione. Di questa opinione, ad esempio, era lo stesso Albert Einstein rispetto alla teoria dei quanti. In ogni caso questa epistemologia si fondava sull’idea che in linea di principio, se non di fatto, esiste comunque un punto di vista da cui il comportamento di ogni sistema è perfettamente prevedibile. Nel momento in cui la teoria del caos ha rotto la sinonimia tra il determinismo e la previsione si è posto un problema che dal punto di vista filosofico si è rivelato estremamente interessante: viene meno l’idea che uno solo sia il comportamento degli oggetti studiati dalla scienza, e quindi uno solo il metodo. Si impone il problema del pluralismo epistemologico, metodologico.

Mauro Ceruti insegna Filosofia della Scienza all’Università di Bergamo, dove è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia e Direttore della Scuola di dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità. È stato allievo di Ludovico Geymonat.
Mauro Ceruti insegna Filosofia della Scienza all’Università di Bergamo, dove è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia e Direttore della Scuola di dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità. È stato allievo di Ludovico Geymonat.
PARISI. Sono assolutamente d’accordo sul fatto che il cambiamento della predicibilità è un punto fondamentale. Se vogliamo applicare la vecchia idea della predicibilità allo studio del movimento dei singoli atomi, questo paradigma non funziona più. Se siamo interessati a sapere la distribuzione delle velocità delle particelle in un gas, non possiamo pensare di misurare tutte le velocità e le posizioni, sarebbe complicatissimo e allo stesso tempo inutile. Si passa insomma dal fare previsioni certe a fare previsioni estremamente probabili. La probabilità che un bicchiere d’acqua in una stanza a temperatura ambiente ghiacci è praticamente nulla, estremamente piccola, possiamo tranquillamente dire che l’acqua resta acqua. Però dobbiamo renderci conto che non è una predizione certa, ma con una probabilità estremamente, estremamente alta. A livello microscopico, nei decadimenti radioattivi ci sono sostanze in cui per esempio dieci atomi possono decadere: prima uno, poi l’altro e poi l’altro. Il problema è che dal punto di vista concettuale, ma anche da quello sperimentale, non possiamo assolutamente sapere quale atomo decadrà prima: gli atomi sono tutti uguali e hanno tutti la stessa probabilità intrinseca di decadere. Non ci sono variabili nascoste, come pensava Einstein, non c’è un angelo che passa e quando passa batte le ali e le ali colpiscono un atomo che allora si disintegra.

CERUTI. La complessità non è una nozione nel senso in cui lo sono tradizionalmente i concetti della fisica o della biologia. Può assumere una vasta gamma di significati. Però l’etimologia del termine è significativa. Complessità deriva dal verbo latino plectere, che vuol dire intrecciare, unito alla preposizione cum. Potremmo dunque dire che complesso è qualcosa di intrecciato più volte. Complessità evoca una pluralità di componenti, ma anche un’idea di unità: è quasi un ossimoro. Anche il contrario di complesso, cioè semplice, viene da plectere, unito però alla particella sim, e vuol dire intrecciato una volta sola. Questo ci porta all’idea che nella semplicità manchino le dimensioni temporali, storiche, evolutive, che invece sono inscindibili dalla complessità.

PARISI. Non avevo mai pensato all’etimologia della parola e mi piace molto. Mi piace perché una delle caratteristiche da sottolineare dei sistemi complessi è che puoi descrivere lo stesso sistema a livelli diversi. Prendiamo un essere umano. Lo puoi cominciare a descrivere a livello dei singoli atomi e dei singoli elettroni, ma lì non c’è molto di interessante. Puoi descriverlo a livello di ciò che fanno le singole proteine e il DNA, poi a livello dei comportamenti delle singole cellule, delle informazioni che le cellule si scambiano tra loro, prima quelle più vicine e poi quelle più lontane, per arrivare a ciò che quest’uomo sta pensando, se è sveglio o dorme, se è allegro o triste e così via. Ci sono tutti questi livelli di descrizione che si intrecciano tra di loro. In teoria è possibile capire il comportamento delle proteine a partire da quello dei singoli atomi, quello delle cellule a partire da quello delle proteine e così via. È possibile, non è detto che sia fattibile. Ma quando passi al livello successivo di spiegazione devi introdurre nuovi concetti, nuove parole, e quindi i vari livelli di descrizione si intrecciano e si influenzano. Un sistema semplice lo puoi invece descrivere a un solo livello. Un modo per tentare di catturare la complessità è pensare di doverne fare una descrizione. Un testo della Divina Commedia lo possiamo analizzare a livello di singole parole, poi all’interno dei singoli canti, poi discutere dei vari significati. Su un testo complesso possiamo dire moltissime cose e quindi in qualche modo la complessità ha bisogno di un linguaggio complesso. Bisogna passare dalla complessità dell’oggetto in sé alla complessità del linguaggio che devi utilizzare per descriverlo. Per un sistema semplice è sufficiente un linguaggio semplice, per un sistema complesso è necessario un linguaggio complesso, più ricco, con molti più concetti che interagiscono tra loro.

CERUTI. Hai sollevato alcuni problemi filosofici che appartengono alla grande tradizione e che oggi restano assolutamente ineludibili. Innanzitutto il problema dell’implicazione dell’osservatore nelle sue osservazioni: la complessità sta nella realtà o nell’osservatore, sta nell’oggetto o nel linguaggio attraverso il quale cerchiamo di studiare l’oggetto?

PARISI. Per me è difficile dirlo, perché in qualche modo io posso “toccare” le cose solo con il linguaggio. Con il tipo di linguaggio e di cervello che ho, per me certi sistemi sono complessi. Però potrei anche immaginare che un extraterrestre con un cervello diverso dal mio troverebbe semplice quello che a me appare complesso e viceversa. Quindi non mi azzardo a dire qualcosa della realtà, preferisco limitarmi a dire che io descrivo la realtà conoscendo il linguaggio che uso.

CERUTI. E poi c’è la questione della separabilità dei componenti di un sistema e della loro conoscibilità in modo distinto. Galileo Galilei, quando introdusse la sua idea della nuova scienza, si pose il problema di quali fossero i limiti di ciò che possiamo conoscere. Per lui, la conoscenza della natura era come la costruzione progressiva di un grande mosaico. Tra la conoscenza umana e quella di dio secondo Galileo non c’è alcuna differenza qualitativa, ma solo quantitativa: i tasselli del mosaico che la scienza umana conosce li conosce bene quanto la mente divina. Ma ne conosce pochissimi, rispetto all’onniscienza divina, che li conosce tutti. Compito della scienza umana è aggiungere nuovi tasselli nella ricostruzione del mosaico. Qui nasce peraltro l’idea di progresso, lineare e cumulativo. Ma questo significa anche che l’aggiunta di conoscenze nuove non retroagisce a modificare la natura della conoscenza dei tasselli già conosciuti. Si tratta di un’ipotesi non solo epistemologica, ma anche ontologica. I sistemi possono essere scomposti in tasselli che possono essere conosciuti separatamente e la conoscenza di tasselli nuovi non cambia la conoscenza di quelli già acquisiti. Certo, Laplace, introducendo il calcolo delle probabilità per studiare nuovi ambiti di realtà, riconobbe che neanche dal punto di vista qualitativo la conoscenza umana può diventare perfetta come quella divina, perché rispetto a questi ambiti dobbiamo “accontentarci” di una conoscenza probabilistica. Ma aggiunse: se ipotizziamo un demone onnisciente, che in un dato istante conosca tutte le leggi di natura e, insieme, lo stato di ogni particella dell’universo, questo demone saprebbe prevedere non solo il futuro dell’universo, ma anche quello di ogni singola particella. E saprebbe anche ricostruire tutto il passato. Dunque, l’ipotesi è che esista un punto di osservazione assoluto dal quale l’universo si rivelerebbe come un meccanismo, come dicevi tu, complicato, ma non complesso. La dimensione temporale non ne sarebbe costitutiva e il tempo, come credeva anche Albert Einstein, sarebbe solo un’illusione. In una visione del mondo complicata, e non complessa, di volta in volta cerchiamo di spiegare perché le cose siano andate così e perché fosse inevitabile che andassero così. In una scienza dei sistemi complessi, al contrario, rispondiamo ad un’altra domanda: perché le cose sono andate così, anche se non era inevitabile che andassero così e sarebbero potute andare diversamente?

PARISI. Questo mi ricorda un bel libro di Stephen Jay Gould, La vita meravigliosa , in cui si poneva proprio questa domanda. Lui guardava a tutte le specie che erano presenti 530 milioni di anni fa, tra cui c’erano solo uno o due vertebrati, su cui nessuno avrebbe scommesso. Se per qualche motivo si fossero estinti, non avremmo mai avuto i vertebrati. Quello su cui insiste molto Gould è il tema della contingenza: non è necessario che le cose accadano in un certo modo e sarebbero potute andare in maniera assai diversa. Questo non vale solo per la Storia con la esse maiuscola. Per esempio è stato calcolato che il numero di specie presenti su un’isola è proporzionale alla radice quarta della superficie dell’isola stessa. Ma, detto questo, calcolato il numero di specie che possiamo aspettarci, non si può sapere di quali tipi di specie si tratterà, se millepiedi o pettirossi o altro. Quello che è avvenuto su ciascuna isola resta completamente ignoto. Anche la fisica ha potuto fare passi avanti accettando di fare un passo indietro, come capita spesso: ha dovuto rinunciare a capire ciò che succede in ogni singola situazione e cercare di capire la statistica dei comportamenti in situazioni assai diverse. Sapere che il sistema potrebbe comportarsi anche in modo diverso da quello in cui si comporta è fondamentale.

CERUTI. In effetti un sistema complesso è un sistema in cui le proprietà del tutto non corrispondono alla somma delle proprietà delle singole parti. Sono qualcosa di più, ma anche di meno: tutto dipende dalle loro reciproche interazioni. E Stephen Jay Gould, proprio ne La vita meravigliosa, per parlare della complessità della storia della vita ricorre alla metafora molto efficace del film della vita: se potessimo riavvolgere il film della storia della vita sulla Terra, dalle origini fino a noi, e lo proiettassimo da capo, ogni volta avremmo un finale diverso. Non solo per la sensibilità del sistema alle condizioni inziali, ma anche per quella che Gould definisce contingenza. La contingenza non è una semplice attenuazione della necessità ad opera del caso: è la caratteristica ineludibile dei sistemi complessi. La conoscenza dei sistemi complessi non può trascurare l’effetto del tempo sulla loro evoluzione. Ciò non significa criticare in toto la scienza “classica”. Significa piuttosto introdurre un pluralismo metodologico ed epistemologico dipendente dalla pluralità degli oggetti della ricerca scientifica. E la sfida della complessità pone oggi anche una questione educativa: quanto i modi di organizzazione dei saperi nelle nostre scuole e università, non solo nell’ambito di ciascuna disciplina ma anche nelle relazioni tra le varie discipline, possano mutare per favorire il sorgere di quella che chiamerei una sensibilità a un modo di conoscere volto a evitare la riduzione di un qualunque oggetto di conoscenza a un solo livello di descrizione, di osservazione. Il grande successo della scienza attraverso la proliferazione degli specialismi oggi può avere effetti recessivi e ostacolare la produzione di nuova creatività scientifica.

PARISI. Hai toccato molti argomenti interessanti. Questo legame della complessità con l’emergenza di proprietà collettive è estremamente importante. Le proprietà collettive ci sono anche in sistemi non complessi: il nostro bicchier d’acqua quando cambia la temperatura della stanza gela o bolle, e questo è un comportamento collettivo, perché dall’esame dei singoli atomi non è affatto chiaro come un decimo di grado faccia diventare completamente solido ciò che era liquido. La differenza fondamentale è che le proprietà collettive dell’acqua sono semplici: o è un solido o è un liquido, oppure un gas. Nei sistemi complessi invece il numero di possibilità è estremamente più alto. Prendiamo il DNA e la miriade di piante e animali a cui può dare vita, il modo in cui possono ripiegarsi le proteine… L’altro tema, quello di mettere insieme la specializzazione e la capacità di cogliere cose che vengano da un settore diverso, nelle nostre università o nella scienza in generale, è un problema molto serio e delicato. Una mia paura, che forse era più forte in passato, è che nelle università si tenda a selezionare persone iperspecializzate. La prima cosa che fa una commissione è verificare quali delle pubblicazioni di una persona sono rilevanti per il settore in cui fa domanda. È una cosa un po’ insensata: se un fisico ha dato contributi importanti in epistemologia, questi lavori sono una ricchezza, anche se concorre per fisica matematica. Per esempio, c’è un’interdisciplinarietà molto forte tra la fisica e la biologia, ci sono fisici che studiano i sistemi viventi utilizzando strumenti concettuali che vengono dal mondo della fisica. Posso capire che nell’Ottocento il mestiere del fisico, del biologo o del matematico fossero molto lontani tra loro, ma oggi si stanno sempre più sovrapponendo.

Giorgio Parisi insegna Meccanica statistica e fenomeni critici presso il dipartimento di fisica dell’Università la Sapienza di Roma. È stato allievo di Nicola Cabibbo.
Giorgio Parisi insegna Meccanica statistica e fenomeni critici presso il dipartimento di fisica dell’Università la Sapienza di Roma. È stato allievo di Nicola Cabibbo.
CERUTI. Penso che le crisi che stiamo attraversando siano soprattutto crisi cognitive. Albert Einstein sosteneva che il pensiero che crea un mondo non sarà in grado di governare il mondo che ha fatto emergere. Il mondo attuale, interdipendente e globalizzato, è anche figlio del taylorismo economico e dello specialismo tecnico-scientifico. Oggi tocchiamo con mano che ogni problema rilevante è complesso, cioè costituito da una molteplicità irriducibile di dimensioni interconnesse. E inoltre ogni problema o oggetto di conoscenza è interconnesso irriducibilmente ad altri altrettanto complessi. Eppure le intelligenze che sono chiamate a risolverli sono per lo più intelligenze specialistiche. Così le soluzioni cercate e proposte sono il più delle volte esse stesse parte del problema. Il caso più eclatante è quello della scienza economica, che manifesta oggi tutta la sua inadeguatezza, non solo a risolvere i problemi, ma soprattutto a formularli in maniera adeguata. Le maggiori difficoltà nell’affrontare la crisi stanno soprattutto nel nostro “non sapere di non sapere”, e nel modo in cui è organizzata la nostra conoscenza, fin dai primi anni della scolarizzazione: un modo che produce una sempre maggiore frammentazione delle conoscenze, laddove i problemi, sempre più complessi, esigono l’intreccio di differenti dimensioni e punti di vista. Abbiamo bisogno di attrezzarci a pensare la complessità, di attrezzarci a pensare nella complessità non solo in senso tecnico, ma anche cercando di elaborare una cultura all’altezza degli specialismi scientifici e tecnologici di cui disponiamo oggi, e quindi all’altezza della complessità dei problemi che sfidano l’attuale condizione umana. In particolare, la valorizzazione della diversità come condizione essenziale nell’evoluzione della vita, delle culture, delle lingue, va sostenuta all’interno del continuo percorso formativo di ciascuno di noi, fin da quando siamo bambini. Non si tratta solo di lasciar convivere la diversità fra gli uni e gli altri, ma si tratta anche di valorizzare le diversità entro noi stessi: altrimenti queste diversità non si sapranno rapportare tra loro. E ciò penalizzerà la creatività di ciascuno. Bisogna che io abbia la capacità di porre domande al professor Parisi, anche senza avere le sue competenze, per formulare i miei problemi epistemologici. E per saperlo ringraziare per avermi insegnato, come oggi, a riformulare alcuni dei miei problemi.

dal sito is.pearson.it

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