Comete e meteore a dicembre

December 9, 2013 in Uncategorized

soho_c3_timelapse

Ultime notizie sulla cometa ISON: dopo il suo avvicinamento al Sole (28 novembre) la cometa ISON si ritiene sia stata quasi completamente distrutta: gli scienziati non sanno ancora quanta parte della cometa sia eventualmente ancora in orbita. Nei prossimi giorni con diversi grandi telescopi si cercherà di
stabilire con certezza le dimensioni e la luminosità del frammento sopravvissuto al calore del Sole (vedi l’immagine). E’ possibile seguire eventuali nuove notizie presso il sito della NASA

http://www.nasa.gov/ison/#.UqXTSM3hCBQ

http://www.nasa.gov/content/goddard/nasa-begins-search-for-what-is-left-of-comet-ison/#.UqXlRc3hCBQ

Il mese di dicembre continua comunque ad essere interessante per il passaggio di altre comete: la C/2013 R1 “Lovejoy”, visibile a occhio nudo verso NE vicino alla Corona Boreale, per le prime due decadi del mese sarà osservabile sia dopo il tramonto che prima dell’alba, anche se al mattino risulterà decisamente più alta in cielo. Nell’ultima parte di dicembre la troveremo più bassa, praticamente inosservabile alla sera ma ancora discretamente alta al mattino.
Poi le meno appariscenti C/2013 V3 “Nevski”, C/2012 X1 “Linear” e P/154 “Brewington” visibili con un binocolo. Da osservare anche gli sciami di meteore, in particolare quello delle Geminidi al loro massimo nei giorni 13 e 14 dicembre. E’ possibile trovare queste ed altre notizie sulle osservazioni del cielo di dicembre nella pagina dell’Unione Astrofili Italiani

http://divulgazione.uai.it/index.php/Cielo_di_Dicembre_2013#COMETE

Viaggio nella Complessità

December 7, 2013 in formulas, mathematics, physics


Giorgio Parisi incontra Mauro Ceruti
Giorgio Parisi e Mauro Ceruti sono due tra le persone che più in Italia hanno lavorato e lavorano sul tema della complessità. Un argomento di cui si è cominciato a parlare quasi quarant’anni fa, un tema chiave per guardare al mondo di oggi, capire l’evoluzione del sapere, individuare le necessità, soprattutto quelle dei giovani, affrontare i problemi. Fisico il primo, filosofo il secondo, Parisi e Ceruti in tanti anni di lavoro parallelo sulla complessità non avevano mai avuto l’occasione di parlarne faccia a faccia: hanno accettato di farlo per iS, in collegamento via Skype tra Roma e Bergamo.

PARISI. La definizione di complessità è sempre stata problematica. Mi ricordo che 20 o 25 anni fa, quando se ne cominciava a parlare nell’ambito della fisica, uno dei relatori a un incontro aveva detto di aver trovato in letteratura 65 definizioni di complessità, molto diverse tra loro. Quasi tutte facevano una forte distinzione tra complicato e complesso. Mi spiego: un jet è complicato, ma non è considerato complesso, perché ogni parte ha un suo scopo e sappiamo che cosa succede se, per esempio, tagliamo un filo. Un sistema complesso, invece, non è stato costruito a tavolino, ha certamente una sua funzione, ma spesso è il frutto di un’evoluzione e non abbiamo idea di come modificarlo per farlo funzionare in una maniera diversa.

“Complessità significa passare da un mondo di previsioni certe a uno di previsioni basate sulla probabilità.” Giorgio Parisi
CERUTI. Hai formulato in modo semplice il problema della complessità… Perché la complessità è un problema, che ho appreso a formulare anche dai tuoi colleghi fisici e matematici. Anch’essi hanno scoperto, col tempo, che molti dei loro oggetti erano davvero complessi e, invece, molti problemi che credevano complessi erano semplicemente complicati. E dunque hanno dovuto per forza approfondire la questione. Ma il punto essenziale, per loro come per me, è che il modello di conoscenza e razionalità elaborato in particolare dalla fisica del diciottesimo e diciannovesimo secolo a un certo punto non funzionava più. Non funzionava più il criterio per definire la verità o anche l’affidabilità di una teoria scientifica. E questo criterio era la sostanziale sinonimia fra determinismo, previsione e prevedibilità. L’imprevedibilità, o il fatto che una teoria non permettesse di prevedere lo stato futuro di un sistema, faceva pensare che ci fosse un difetto intrinseco alla teoria, che quindi avrebbe dovuto essere cambiata in senso maggiormente predittivo. Oppure che ci fosse un difetto della nostra capacità di osservazione. Di questa opinione, ad esempio, era lo stesso Albert Einstein rispetto alla teoria dei quanti. In ogni caso questa epistemologia si fondava sull’idea che in linea di principio, se non di fatto, esiste comunque un punto di vista da cui il comportamento di ogni sistema è perfettamente prevedibile. Nel momento in cui la teoria del caos ha rotto la sinonimia tra il determinismo e la previsione si è posto un problema che dal punto di vista filosofico si è rivelato estremamente interessante: viene meno l’idea che uno solo sia il comportamento degli oggetti studiati dalla scienza, e quindi uno solo il metodo. Si impone il problema del pluralismo epistemologico, metodologico.

Mauro Ceruti insegna Filosofia della Scienza all’Università di Bergamo, dove è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia e Direttore della Scuola di dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità. È stato allievo di Ludovico Geymonat.
Mauro Ceruti insegna Filosofia della Scienza all’Università di Bergamo, dove è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia e Direttore della Scuola di dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità. È stato allievo di Ludovico Geymonat.
PARISI. Sono assolutamente d’accordo sul fatto che il cambiamento della predicibilità è un punto fondamentale. Se vogliamo applicare la vecchia idea della predicibilità allo studio del movimento dei singoli atomi, questo paradigma non funziona più. Se siamo interessati a sapere la distribuzione delle velocità delle particelle in un gas, non possiamo pensare di misurare tutte le velocità e le posizioni, sarebbe complicatissimo e allo stesso tempo inutile. Si passa insomma dal fare previsioni certe a fare previsioni estremamente probabili. La probabilità che un bicchiere d’acqua in una stanza a temperatura ambiente ghiacci è praticamente nulla, estremamente piccola, possiamo tranquillamente dire che l’acqua resta acqua. Però dobbiamo renderci conto che non è una predizione certa, ma con una probabilità estremamente, estremamente alta. A livello microscopico, nei decadimenti radioattivi ci sono sostanze in cui per esempio dieci atomi possono decadere: prima uno, poi l’altro e poi l’altro. Il problema è che dal punto di vista concettuale, ma anche da quello sperimentale, non possiamo assolutamente sapere quale atomo decadrà prima: gli atomi sono tutti uguali e hanno tutti la stessa probabilità intrinseca di decadere. Non ci sono variabili nascoste, come pensava Einstein, non c’è un angelo che passa e quando passa batte le ali e le ali colpiscono un atomo che allora si disintegra.

CERUTI. La complessità non è una nozione nel senso in cui lo sono tradizionalmente i concetti della fisica o della biologia. Può assumere una vasta gamma di significati. Però l’etimologia del termine è significativa. Complessità deriva dal verbo latino plectere, che vuol dire intrecciare, unito alla preposizione cum. Potremmo dunque dire che complesso è qualcosa di intrecciato più volte. Complessità evoca una pluralità di componenti, ma anche un’idea di unità: è quasi un ossimoro. Anche il contrario di complesso, cioè semplice, viene da plectere, unito però alla particella sim, e vuol dire intrecciato una volta sola. Questo ci porta all’idea che nella semplicità manchino le dimensioni temporali, storiche, evolutive, che invece sono inscindibili dalla complessità.

PARISI. Non avevo mai pensato all’etimologia della parola e mi piace molto. Mi piace perché una delle caratteristiche da sottolineare dei sistemi complessi è che puoi descrivere lo stesso sistema a livelli diversi. Prendiamo un essere umano. Lo puoi cominciare a descrivere a livello dei singoli atomi e dei singoli elettroni, ma lì non c’è molto di interessante. Puoi descriverlo a livello di ciò che fanno le singole proteine e il DNA, poi a livello dei comportamenti delle singole cellule, delle informazioni che le cellule si scambiano tra loro, prima quelle più vicine e poi quelle più lontane, per arrivare a ciò che quest’uomo sta pensando, se è sveglio o dorme, se è allegro o triste e così via. Ci sono tutti questi livelli di descrizione che si intrecciano tra di loro. In teoria è possibile capire il comportamento delle proteine a partire da quello dei singoli atomi, quello delle cellule a partire da quello delle proteine e così via. È possibile, non è detto che sia fattibile. Ma quando passi al livello successivo di spiegazione devi introdurre nuovi concetti, nuove parole, e quindi i vari livelli di descrizione si intrecciano e si influenzano. Un sistema semplice lo puoi invece descrivere a un solo livello. Un modo per tentare di catturare la complessità è pensare di doverne fare una descrizione. Un testo della Divina Commedia lo possiamo analizzare a livello di singole parole, poi all’interno dei singoli canti, poi discutere dei vari significati. Su un testo complesso possiamo dire moltissime cose e quindi in qualche modo la complessità ha bisogno di un linguaggio complesso. Bisogna passare dalla complessità dell’oggetto in sé alla complessità del linguaggio che devi utilizzare per descriverlo. Per un sistema semplice è sufficiente un linguaggio semplice, per un sistema complesso è necessario un linguaggio complesso, più ricco, con molti più concetti che interagiscono tra loro.

CERUTI. Hai sollevato alcuni problemi filosofici che appartengono alla grande tradizione e che oggi restano assolutamente ineludibili. Innanzitutto il problema dell’implicazione dell’osservatore nelle sue osservazioni: la complessità sta nella realtà o nell’osservatore, sta nell’oggetto o nel linguaggio attraverso il quale cerchiamo di studiare l’oggetto?

PARISI. Per me è difficile dirlo, perché in qualche modo io posso “toccare” le cose solo con il linguaggio. Con il tipo di linguaggio e di cervello che ho, per me certi sistemi sono complessi. Però potrei anche immaginare che un extraterrestre con un cervello diverso dal mio troverebbe semplice quello che a me appare complesso e viceversa. Quindi non mi azzardo a dire qualcosa della realtà, preferisco limitarmi a dire che io descrivo la realtà conoscendo il linguaggio che uso.

CERUTI. E poi c’è la questione della separabilità dei componenti di un sistema e della loro conoscibilità in modo distinto. Galileo Galilei, quando introdusse la sua idea della nuova scienza, si pose il problema di quali fossero i limiti di ciò che possiamo conoscere. Per lui, la conoscenza della natura era come la costruzione progressiva di un grande mosaico. Tra la conoscenza umana e quella di dio secondo Galileo non c’è alcuna differenza qualitativa, ma solo quantitativa: i tasselli del mosaico che la scienza umana conosce li conosce bene quanto la mente divina. Ma ne conosce pochissimi, rispetto all’onniscienza divina, che li conosce tutti. Compito della scienza umana è aggiungere nuovi tasselli nella ricostruzione del mosaico. Qui nasce peraltro l’idea di progresso, lineare e cumulativo. Ma questo significa anche che l’aggiunta di conoscenze nuove non retroagisce a modificare la natura della conoscenza dei tasselli già conosciuti. Si tratta di un’ipotesi non solo epistemologica, ma anche ontologica. I sistemi possono essere scomposti in tasselli che possono essere conosciuti separatamente e la conoscenza di tasselli nuovi non cambia la conoscenza di quelli già acquisiti. Certo, Laplace, introducendo il calcolo delle probabilità per studiare nuovi ambiti di realtà, riconobbe che neanche dal punto di vista qualitativo la conoscenza umana può diventare perfetta come quella divina, perché rispetto a questi ambiti dobbiamo “accontentarci” di una conoscenza probabilistica. Ma aggiunse: se ipotizziamo un demone onnisciente, che in un dato istante conosca tutte le leggi di natura e, insieme, lo stato di ogni particella dell’universo, questo demone saprebbe prevedere non solo il futuro dell’universo, ma anche quello di ogni singola particella. E saprebbe anche ricostruire tutto il passato. Dunque, l’ipotesi è che esista un punto di osservazione assoluto dal quale l’universo si rivelerebbe come un meccanismo, come dicevi tu, complicato, ma non complesso. La dimensione temporale non ne sarebbe costitutiva e il tempo, come credeva anche Albert Einstein, sarebbe solo un’illusione. In una visione del mondo complicata, e non complessa, di volta in volta cerchiamo di spiegare perché le cose siano andate così e perché fosse inevitabile che andassero così. In una scienza dei sistemi complessi, al contrario, rispondiamo ad un’altra domanda: perché le cose sono andate così, anche se non era inevitabile che andassero così e sarebbero potute andare diversamente?

PARISI. Questo mi ricorda un bel libro di Stephen Jay Gould, La vita meravigliosa , in cui si poneva proprio questa domanda. Lui guardava a tutte le specie che erano presenti 530 milioni di anni fa, tra cui c’erano solo uno o due vertebrati, su cui nessuno avrebbe scommesso. Se per qualche motivo si fossero estinti, non avremmo mai avuto i vertebrati. Quello su cui insiste molto Gould è il tema della contingenza: non è necessario che le cose accadano in un certo modo e sarebbero potute andare in maniera assai diversa. Questo non vale solo per la Storia con la esse maiuscola. Per esempio è stato calcolato che il numero di specie presenti su un’isola è proporzionale alla radice quarta della superficie dell’isola stessa. Ma, detto questo, calcolato il numero di specie che possiamo aspettarci, non si può sapere di quali tipi di specie si tratterà, se millepiedi o pettirossi o altro. Quello che è avvenuto su ciascuna isola resta completamente ignoto. Anche la fisica ha potuto fare passi avanti accettando di fare un passo indietro, come capita spesso: ha dovuto rinunciare a capire ciò che succede in ogni singola situazione e cercare di capire la statistica dei comportamenti in situazioni assai diverse. Sapere che il sistema potrebbe comportarsi anche in modo diverso da quello in cui si comporta è fondamentale.

CERUTI. In effetti un sistema complesso è un sistema in cui le proprietà del tutto non corrispondono alla somma delle proprietà delle singole parti. Sono qualcosa di più, ma anche di meno: tutto dipende dalle loro reciproche interazioni. E Stephen Jay Gould, proprio ne La vita meravigliosa, per parlare della complessità della storia della vita ricorre alla metafora molto efficace del film della vita: se potessimo riavvolgere il film della storia della vita sulla Terra, dalle origini fino a noi, e lo proiettassimo da capo, ogni volta avremmo un finale diverso. Non solo per la sensibilità del sistema alle condizioni inziali, ma anche per quella che Gould definisce contingenza. La contingenza non è una semplice attenuazione della necessità ad opera del caso: è la caratteristica ineludibile dei sistemi complessi. La conoscenza dei sistemi complessi non può trascurare l’effetto del tempo sulla loro evoluzione. Ciò non significa criticare in toto la scienza “classica”. Significa piuttosto introdurre un pluralismo metodologico ed epistemologico dipendente dalla pluralità degli oggetti della ricerca scientifica. E la sfida della complessità pone oggi anche una questione educativa: quanto i modi di organizzazione dei saperi nelle nostre scuole e università, non solo nell’ambito di ciascuna disciplina ma anche nelle relazioni tra le varie discipline, possano mutare per favorire il sorgere di quella che chiamerei una sensibilità a un modo di conoscere volto a evitare la riduzione di un qualunque oggetto di conoscenza a un solo livello di descrizione, di osservazione. Il grande successo della scienza attraverso la proliferazione degli specialismi oggi può avere effetti recessivi e ostacolare la produzione di nuova creatività scientifica.

PARISI. Hai toccato molti argomenti interessanti. Questo legame della complessità con l’emergenza di proprietà collettive è estremamente importante. Le proprietà collettive ci sono anche in sistemi non complessi: il nostro bicchier d’acqua quando cambia la temperatura della stanza gela o bolle, e questo è un comportamento collettivo, perché dall’esame dei singoli atomi non è affatto chiaro come un decimo di grado faccia diventare completamente solido ciò che era liquido. La differenza fondamentale è che le proprietà collettive dell’acqua sono semplici: o è un solido o è un liquido, oppure un gas. Nei sistemi complessi invece il numero di possibilità è estremamente più alto. Prendiamo il DNA e la miriade di piante e animali a cui può dare vita, il modo in cui possono ripiegarsi le proteine… L’altro tema, quello di mettere insieme la specializzazione e la capacità di cogliere cose che vengano da un settore diverso, nelle nostre università o nella scienza in generale, è un problema molto serio e delicato. Una mia paura, che forse era più forte in passato, è che nelle università si tenda a selezionare persone iperspecializzate. La prima cosa che fa una commissione è verificare quali delle pubblicazioni di una persona sono rilevanti per il settore in cui fa domanda. È una cosa un po’ insensata: se un fisico ha dato contributi importanti in epistemologia, questi lavori sono una ricchezza, anche se concorre per fisica matematica. Per esempio, c’è un’interdisciplinarietà molto forte tra la fisica e la biologia, ci sono fisici che studiano i sistemi viventi utilizzando strumenti concettuali che vengono dal mondo della fisica. Posso capire che nell’Ottocento il mestiere del fisico, del biologo o del matematico fossero molto lontani tra loro, ma oggi si stanno sempre più sovrapponendo.

Giorgio Parisi insegna Meccanica statistica e fenomeni critici presso il dipartimento di fisica dell’Università la Sapienza di Roma. È stato allievo di Nicola Cabibbo.
Giorgio Parisi insegna Meccanica statistica e fenomeni critici presso il dipartimento di fisica dell’Università la Sapienza di Roma. È stato allievo di Nicola Cabibbo.
CERUTI. Penso che le crisi che stiamo attraversando siano soprattutto crisi cognitive. Albert Einstein sosteneva che il pensiero che crea un mondo non sarà in grado di governare il mondo che ha fatto emergere. Il mondo attuale, interdipendente e globalizzato, è anche figlio del taylorismo economico e dello specialismo tecnico-scientifico. Oggi tocchiamo con mano che ogni problema rilevante è complesso, cioè costituito da una molteplicità irriducibile di dimensioni interconnesse. E inoltre ogni problema o oggetto di conoscenza è interconnesso irriducibilmente ad altri altrettanto complessi. Eppure le intelligenze che sono chiamate a risolverli sono per lo più intelligenze specialistiche. Così le soluzioni cercate e proposte sono il più delle volte esse stesse parte del problema. Il caso più eclatante è quello della scienza economica, che manifesta oggi tutta la sua inadeguatezza, non solo a risolvere i problemi, ma soprattutto a formularli in maniera adeguata. Le maggiori difficoltà nell’affrontare la crisi stanno soprattutto nel nostro “non sapere di non sapere”, e nel modo in cui è organizzata la nostra conoscenza, fin dai primi anni della scolarizzazione: un modo che produce una sempre maggiore frammentazione delle conoscenze, laddove i problemi, sempre più complessi, esigono l’intreccio di differenti dimensioni e punti di vista. Abbiamo bisogno di attrezzarci a pensare la complessità, di attrezzarci a pensare nella complessità non solo in senso tecnico, ma anche cercando di elaborare una cultura all’altezza degli specialismi scientifici e tecnologici di cui disponiamo oggi, e quindi all’altezza della complessità dei problemi che sfidano l’attuale condizione umana. In particolare, la valorizzazione della diversità come condizione essenziale nell’evoluzione della vita, delle culture, delle lingue, va sostenuta all’interno del continuo percorso formativo di ciascuno di noi, fin da quando siamo bambini. Non si tratta solo di lasciar convivere la diversità fra gli uni e gli altri, ma si tratta anche di valorizzare le diversità entro noi stessi: altrimenti queste diversità non si sapranno rapportare tra loro. E ciò penalizzerà la creatività di ciascuno. Bisogna che io abbia la capacità di porre domande al professor Parisi, anche senza avere le sue competenze, per formulare i miei problemi epistemologici. E per saperlo ringraziare per avermi insegnato, come oggi, a riformulare alcuni dei miei problemi.

dal sito is.pearson.it

Disegnare al Mare

September 11, 2013 in formulas, mathematics

Durante l’estate al mare si possono fare tante cose.
Per esempio si può provare a utilizzare qualcuno dei oggetti portati dalle onde sulla riva per costruire qualcosa.
Era una delle attività di Robinson Crosue, che nella storia raccontata da Daniel Defoe si industriava in questo modo per sopravvivere al naufragio.

Molte delle cose portate dal mare come per esempio le penne d’uccello, gli assi, i pezzetti di legno, le canne che spesso crescono in prossimità di acque dolci o i fili da pesca, possono essere utilizzati anche per costruire macchine matematiche da disegno, simili a quelle degli antichi greci o dei matematici del ‘500, per disegnare forme geometriche sulla sabbia.
Abbiamo provato a realizzare le coniche e questi sono i risultati:

IL COMPASSO

La più semplice macchina da disegno è forse quella che serve per realizzare cerchi sulla sabbia. Seguendo la regola di usare solo materiale portato dal mare.
Questo compasso è stato realizzato utilizzando solo tre piccole canne legate con filo da pesca.

Il Compasso

Il Compasso

L’ELLISSOGRAFO DI VAN SCHOOTEN

evs Dopo il compasso viene naturale provare a realizzare un ellissografo.
Si può iniziare con l’ellissografo di Van Schooten rappresentato in questa figura.
L’ellissografo marino di Van Schooten è stato realizzato con canne, una penna di pavone e un po’ di filo da pesca.
L’asta parallela all’asse maggiore dell’ellise è fissata sulla sabbia e serve da guida per il braccio snodato.
Un piccolo perno legato al braccio al quale è fissata la penna di pavone vincola il braccio all’asta.
Lo snodo è realizzato semplicemente legando in modo lasco i bracci con del filo da pesca.

Ellissografo di Van Schooten

Ellissografo di Van Schooten

Ellissografo di Van Schooten

Ellissografo di Van Schooten

L’ELLISSOGRAFO A FILO

L’ellissografo di Van Schooten non è il più semplice che si possa realizzare. Molto più semplice è l’ellissografo a filo, quello usato dai giardinieri per realizzare aiuole ellissoidali. Si lega un filo da pesca a due bastoncini infilati nella sabbia nelle posizioni dei fuochi e si fa scorrere una penna d’uccello sul filo per tracciare la forma dell’ellisse sulla sabbia.

Ellissografo a filo

Ellissografo a filo

L’ELLISSOGRAFO AD ANTIPARALLELOGRAMMA
052d Decisamente più complicata è la costruzione di un ellissografo ad antiparallelogramma.
L’antiparallelogramma deve essere infatti snodato nei due fuochi e sui vertici del lato opposto, ma deve avere due guide nel cui incrocio bisognerà inserire la penna che traccia l’ellisse.
Quattro canne lunghe e sottili legate a coppie con del filo da pesca formano due guide perfette, mentre tutti gli snodi si possono realizzare con il metodo delle legature un po’ lente.
Il risultato è piuttosto soddisfacente

L'ellissografo ad antiparallelogramma

L’ellissografo ad antiparallelogramma

Ellissografo ad antiparallelogramma, particolare delle guide e degli snodi

Le guide e gli snodi del’ellissografo

IL PARABOLOGRAFO
Sul sito dell’Associazione Macchine Matematiche si legge, a proposito del parabolografo a filo.
parabola filoDQuesto strumento a filo, che De L’Hospital impiega nel suo trattato sulle sezioni coniche (ed. 1720) per definire la parabola, è descritto da Kepler (“Ad Vitellionem Paralipomena”, ed. 1604) insieme a quelli (più facili da ideare perchè implicitamente contenuti nelle proposizioni 51 e 52 del libro III° di Apollonio) che tracciano ellissi ed iperboli: in modo particolarmente interessante perchè fa ricorso al concetto di infinito attuale e al codice dell’analogia. “A lungo mi dolsi” – scrive Kepler – di non saper descrivere col filo anche una parabola: finalmente l’analogia mi mostrò una soluzione”. Se infatti si immagina una parabola di fuoco F come una ellisse avente uno dei fuochi in F e l’altro a distanza “infinita” da F (sicchè la retta che lo congiunge a un punto P della curva diventa parallela all’asse di questa), sia la somma delle distanze dei due fuochi da P, sia la loro differenza, è una semiretta: che può essere considerata di lunghezza costante. Quindi è possibile immaginare la parabola sia come ellisse che come iperbole. Poichè la parabola è il luogo dei punti equidistanti da una retta (direttrice) e da un punto ad essa esterno (fuoco), nello strumento (costruito per “analogia” con un ellissografo o iperbolografo) la lunghezza totale del filo teso risulta pari alla distanza fra la direttrice e una retta a questa parallela (base del segmento parabolico tracciato).

Un asse di una barca naufragata tanto tempo fa, un filo e una piccola squadra realizzata legando con filo da pesca due piccole canne permettono di disegnare una parabola perfetta sulla sabbia

Parabolografo a filo

Parabolografo a filo

Il parabolografo a filo

Il parabolografo a filo

IPERBOLOGRAFO A FILO

L’ultima conica che abbiamo realizzato prima che finissero le vacanze al mare è stata l’iperbole.
Per questo disegno sulla sabbia non daremo troppe spiegazioni, chi vuole può provare a farne uno simile utilizzando del filo da pesca, una penna d’uccello un a canna e un piccolo perno.

Iperbolografo a filo

Iperbolografo a filo: dettaglio

Iperbolografo a filo: dettaglio

Checklist for Talks With Overhead Projectors

July 13, 2013 in mathematics, seminars

from academic.reed.edu

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Professor Jim Yorke (University of Maryland)

Checklist for talks with overhead projectors.

A live test audience

All mathematicians and scientists hear many unintelligible talks by professional speakers (i.e., professors) who think they are being clear. I believe these occur because the speaker did not get adequate feedback while preparing. All talks should be tested on live audiences. In our seminar students must Pre-test talks with an audience of students before the announced version is given, even if that is also a practice for a talk at meeting. Speakers are frequently amazed to find out that their basic material is not known by the audience.

The test talk is primarily for intelligibility, not timing, and is to see what kind of difficulty an audience would have with your explanations. Hence the test audience should speak up when they do not understand what is being said, not hold questions until the end.

Feedback: When you sit through a lecture that nobody understands, as often happens, it is almost always because the speaker does not know that he/she is being unintelligible. When you give a talk, do NOT ask if it was OK. That will usually yield a positive response. Instead ask what was wrong with the talk. Tell people you are going to give it again and need feedback. It is good if you can tell them this before you give the talk so they take notes.

If you give a practice talk that is judged a failure, don’t worry about it; just fix it. It is the final talk that counts. I once tested a talk on test audiences before the real event.

The Main Point

Have a clear idea of what the main point is in your talk and tell the audience early in the talk. You may get lots of questions because some of the audience is lost, and you may run out of time before the talk is over, so be sure that your main point is early enough in the talk that it does not get lost if the talk ends early.

Outline? Pare down to the Essence

Don’t waste time in an early talk outlining your talk. People who present outlines in short talks rarely get through the material outlined. More generally a major art in giving a talk is seeing how much material can be omitted. For each transparency, ask if there is a way not to present the material or explain it more briefly. You should be aiming at explaining one central idea or achievement. Talks sometimes begin with unessential material. When the audience interrupts with numerous questions about what the speaker has said, the talk never gets to the essence and is a disaster.

Practice with Overhead Projectors

Practice using two overheads if you can have two in the final talk.

There is a strange resistance among many speakers to use more than one overhead projector, as if the audience could perfectly remember the previous material. Yet if they were lecturing on a black board and had only one meter-square panel, they would find it constricting to have to erase the board every couple of minutes. The audience will appreciate the use of two even if your initial reaction as speaker is that only one is needed.

The simplest approach is to alternate between projectors, putting the first transparency on one and the second on the other. When one projector is brighter or better than the other, just put the new transparency on the better projector and the previous one on the backup. When a particularly central transparency is encountered it can be left for a longer time on the backup projector.

Your test audience should criticize you when you if you stand in the way of some of the audience, blocking either screen. Point to material on the screen if possible and not to the transparency on the overhead projector since then you will be blocking your audience’s view. Practice with an audience distributed to the far left and right and in front and do not block any of the audience.

Credits

Make sure the audience knows what YOU have done and what part of your material has been done by others; in particular distinguish background material from your material. Don’t be shy about claiming credit.

Give credit to people who did the background work by name at least; (it is usually cumbersome to give a full reference, tho it is good to have available.) If you don’t give credit, someone will think you did that work and are claiming credit it for it.

Voice

Speak uniformly loudly. Some speakers drop their voices at parts of sentences. It does not suffice to say 90% of a sentence loudly. When answering a question of someone sitting in the front, keep you voice loud so that they whole audience can hear you, and remember that many have probably not heard the question.

Eye contact

Make frequent eye contact with the audience. See if you can interact with the audience.

 

Transparencies

Transparency titles

Each transparency should have a title. It should tell the audience what they are looking at, what the point is of the transparency, and it should be underlined so that it is clear it is a title.

Double Size type

ALL type on a transparency should be visible from the back of the room. Never use unenlarged typescript in a transparency. It might work in some small rooms with some overheads but usually it fails. Type should be enlarged from regular print by at least a linear factor of 2, so your font should permit at most 40 characters for the width of the page.

It is important to keep the total amount of text on a transparency small; but also assume that the audience is much less likely to understand a point that you say than if you write and talk about it.

If a figure you copy has some small type (such as scales), wipe it out before making the transparency and re-write the material by hand in large visible letters.

Erase material that you do not want to draw to the attention of the audience to.

Color

Use some color. If your transparencies are black and white, then underline in color, use color boxes and write over some letters in color.

Number your transparencies

Number your transparencies so that when they get mixed up, they are easy to sort for your next presentation.

Many speakers seem more concerned about keeping transparencies in order than in keeping them in front of the audience; they remove a transparency the second they finish talking about it, giving the audience no time to really see and understand what was written; then they take several seconds finishing some comments and putting down the transparency, and picking up a new one. Instead you should pick up your next transparency before you take the previous one off, so you can keep your material in front of people for a maximum time.

Apologies?

Do not apologize in your talk for anything, for example, for having forgotten to say something earlier. If you forgot, just say “Now is a good time to tell you …”. They won’t know that you think you screwed up. You are supposed to give an appearance of mastery. Do not apologize even for having the sniffles, since you just draw the audiences attention to it. If you have failed despite the above paragraph above to get to your main point, don’t tell the audience that you didn’t get to your main point. That is just telling them that they wasted their time listening to you. Hopefully they enjoyed what they did hear.

Repeat key ideas

Find the places where you present ideas, equations, or definitions at the bottom of a transparency; after you introduce it in your talk, the audience might have 5 seconds after you go over it to understand before you grab the sheet from the screen; so figure out how to extend the time they have to understand it. For example discuss some illuminating aspect of it.

If you plan to cover up the bottom of a transparency and show only the top, make an extra copy with just the material on the top; hence the next slide will duplicate the top and continue on. One slide can thus be broken into several stages. Many audience members dislike seeing large parts of the screen blacked out; it creates a dark room with only a slice of transparency showing.

Graphs and Figures

Your graphs should be intelligible. If you are using a logarithmic scale, don’t write the values of the logs. write for example 1 10 100 1000 Etc. When people instead write logs base e instead of actual values, they are presenting material they cannot expect the audience to understand. In such a talk would you know what exp(6) is for example? (Ans.: exp(3) is about 20 so exp(6) is 400)

Fibonacci Pigeons

June 14, 2013 in mathematics

Dal sito mathblag.wordpress.com

Here is a funny picture that has been circulating the Internet since September 2010. I think that analyzing this picture would be an interesting project for a high school math class. My own analysis is included below.

This picture is amusing, but I wondered if it was real. Some people claim that the picture was Photoshopped. I don’t know how to tell if it was faked, but I do know how to count pixels.

I copied the picture into Microsoft Paint, and I recorded the x-coordinates of the arrow tips. Magnifying the picture to 800% made this task much easier. I entered these coordinates into Microsoft Excel, and I also calculated the first differences.

If the pigeons are truly spaced according to the Fibonacci numbers, then the first differences should be roughly proportional to 1.618x. To test this hypothesis, I made a scatter plot, and I fitted an exponential trend line to the data.

The fit is good, but not spectacular (R2 = 0.9357). However, the base of exponents is not even close to 1.618. According to Excel, the exponential function of best fit is y = 5.9093 * exp(0.2453*x), which can also be written as y = 5.9093 * 1.278^x. If we omit the last two data points as outliers, then the correlation improves to R2 = 0.986, but the base of exponents is even smaller (b = 1.216). The spacing between pigeons is simply not increasing as rapidly as the Fibonacci numbers.

Conclusion: the picture is funny, and perhaps one should not over-analyze a good joke, but it does not show any evidence that pigeons arrange themselves according to the Fibonacci numbers.

 

Soundscape: le campane di Roma per il Papa. Rome: bells for the Pope

April 13, 2013 in formulas, sound, Uncategorized

When the Pope is elected the bells of Saint Peter’s announce the election.
Some of the other churches join in. Thanks to students, faculty and staff of Dipartimento di Architettura Roma Tre for stopping wherever they were and taping on the cell phone!

Testa o Croce

April 11, 2013 in Uncategorized

I due amici di Amleto nel film “Rosenkrantz e Guildenstern sono morti” si interrogano sull’anomalia di un un mondo in cui una moneta cade sempre sulla faccia “testa”. Un caso estremo che aiuta a comprendere perché non abbia senso puntare sui “ritardi”.

Un modello di equilibrio tra il suolo antropizzato e il suolo agricolo

December 21, 2012 in Uncategorized

mercoledi’ 21 Novembre ore 14, aula Valadier (Mattatoio)

Roberto D’autilia “Un modello di equilibrio tra il suolo antropizzato e il suolo agricolo”

Abstract
La città cresce assorbendo risorse e producendo scorie, innovazione, sviluppo. La relazione che lega la grandezza della città,
misurata come numero di abitanti, e le risorse che ne determinano la crescita sembra essere una legge di potenza, in analogia con le
grandezze che determinano la crescita degli organismi biologici.
Recentemente è stato quindi introdotto un modello di metabolismo urbano analogo a quello biologico, ed è stato Read the rest of this entry →

Inside the unconscious brain

November 10, 2012 in formulas, news

New study reveals brain-wave patterns that mark loss of consciousness during anesthesia.

Anne Trafton, MIT News Office

A new study from MIT and Massachusetts General Hospital (MGH) reveals, for the first time, what happens inside the brain as patients lose consciousness during anesthesia. Read the rest of this entry →

The quest to simplify

November 7, 2012 in formulas, physics


Mike Perricone
 on plus magazine
This article first appeared on the FQXi community website, which does for physics and cosmology what Plus does for maths: provide the public with a deeper understanding of known and future discoveries in these areas, and their potential implications for our worldview. FQXi are our partners in our Science fiction, science fact project, which asked you to nominate questions from the frontiers of physics you’d like to have answered. This article addresses the question “How many dimensions are there?”. Click here to see other articles on the topic. Read the rest of this entry →